Di Antonluca Cuoco
Per cambiare in meglio il funzionamento di un Comune, di una Regione e l’apparato di uno Stato intero servono parole di verità. Oltre che coraggio riformatore. Il settore pubblico italiano, con le sue prestazioni, era e resta un drammatico freno allo sviluppo perché continua a drenare risorse ingenti, incidendo in negativo sui processi economici pregiudicando la competitività, produttività e l’attrattività nazionale. Questa è la cornice in cui siamo e da cui non possiamo sfuggire, anche perché è la realtà che ogni giorno rincorre tutti noi contribuenti, imprenditori, lavoratori e giovani partite iva con l’ambizione di lavorare per produrre ricchezza e realizzarsi, anche se nati al Sud.
Il dibattito pubblico in Italia sulla macchina statale legato anche alla imprescindibile spending review qualche anno fa fu animato dalla presenza dei “commissari ad hoc”, figure tecniche che diversi governi nominarono per stilare piani di efficientamento e razionali tagli di spesa, coerentemente ad una necessaria revisione dei costi. Anni segnati da tante promesse ma ricordati per le pochissime realizzate. E dalla continua assenza della cultura della performance, con quello che questa comporta in termini di misurazione e valutazione dei risultati.
Il fondamentale e necessario riequilibrio della dissestata finanza pubblica italiana non può che passare attraverso un puntuale processo di revisione della spesa, anche negli enti locali: lo sentiamo dire da anni ed i più intellettualmente onesti che prediligono lo studio dei numeri al populismo, tentano di spiegarlo ad ogni occasione, precisando che questa è la strada per tornare a rendere più efficiente e competitiva la penisola in cui viviamo, con una riduzione credibile e sostenibile delle imposte. Va detto che il settore pubblico dispone già adesso di molte leve. Si pensi alla spesso ideologizzata questione dell’accorpamento dei servizi e delle funzioni comunali o delle municipalizzate da preservare sempre ‘in house’: è fin troppo evidente che dietro la falsa bandiera del campanilismo si nasconde quasi sempre la difesa delle rendite personali delle “famiglie” dei politici locali, non esattamente a vantaggio dei cittadini/contribuenti.
Diametralmente opposta all’approccio dei “tagli lineari”, la ormai famosa (purtroppo solo a parole) “spending review” può effettivamente costituire una occasione per riconsiderare il capitolo della gigantesca ed inefficace spesa pubblica italiana, contribuendo ad adottare soluzioni orientate al miglioramento dell’azione pubblica in un’ottica di equità nazionale. A tale scopo, risulta esser particolarmente necessario porre attenzione sul tema della spesa degli enti territoriali. Si tratta di utilizzare la necessità e la opportunità di una revisione di questa spesa – anche visto il PNRR su cui il nostro paese si misurerà – per concorrere a stilare nuove strategie più efficaci di investimento dei soldi raccolti con le tasse, dai trasferimenti nazionali ed europei non solo per ridurre l’ammontare della spesa locale ma anche per migliorarla e ri-orientarla allo scopo di rendere i territori più vivibili per chi ci lavora ed anche più attraenti per potenziali investitori esterni.
Questo ci porta a considerare anche l’impatto che ha avuto la, per molti versi, sciagurata riforma costituzionale del 2001 e un po’ tutto il sistema del decentramento istituzionale, soprattutto perché non è stato accompagnato da una coerente e contemporanea riforma fiscale, con la responsabilizzazione dei livelli regionali.
Ronald Wilson Reagan soleva dire: “Un contribuente è uno che lavora per lo Stato, ma senza avere vinto un concorso pubblico.”