Il partito liberale europeo, nato dall’idea di Francesco Patamia, fra mille difficoltà ci prova con la sfida liberale. E lo spiega. Sul loro sito leggi qui una interessante riflessione
Breve guida a una dottrina politica che in Italia ebbe grandi fortune, ma che oggi viene citata perlopiù a sproposito.
L’8 aprile scorso, sul quotidiano Domani è uscito un articolo di Emanuele Felice, ex responsabile economico del Partito Democratico e storico dell’economia, sulla confusione che «regna sovrana» sullo scenario politico italiano e sulle sue categorie, che spiega come schieramenti che non hanno nulla a che fare con la tradizione liberale, si intestino quell’etichetta seguendo «l’opportunismo politico». Nel descrivere questa appropriazione, che procede da anni, Felice sostiene ci sia uno svuotamento di significato di termini come “liberali” e “riformisti”, trascurando però una spiegazione che forse è ormai necessaria proprio per via della tendenza che descrive: chi è davvero, quando si parla di politica, un liberale?
È diventato effettivamente difficile definire cosa sia diventato il liberalismo e chi siano oggi coloro che si riconoscono in questa dottrina, per almeno due motivi: innanzitutto perché il liberalismo, nel corso della sua lunga storia, è stato tante cose diverse, e poi perché un partito che si richiami esplicitamente alla tradizione liberale, in Italia, non esiste da quasi trent’anni. Come vedremo, l’unica formazione che ancora si definisce liberale è Forza Italia, ma con alcune contraddizioni.
Brevi cenni storici e i princìpi fondamentali
L’insieme di teorie che hanno contribuito a formare la concezione odierna di liberalismo ha una storia lunga secoli. Sintetizzando molto, si può dire che l’origine del liberalismo risale almeno alla Gloriosa rivoluzione del 1688 con cui l’Inghilterra – che fino ad allora era una monarchia assoluta – si trasformò in una monarchia costituzionale. Nei secoli successivi, poi, si sviluppò con le teorie dei filosofi illuministi inglesi e francesi, in particolare con la prima elaborazione sistematica del concetto di liberalismo fornita da Montesquieu, considerato il fondatore della teoria della separazione dei poteri che ancora oggi è il principio fondamentale delle democrazie.
Le prime applicazioni pratiche di queste teorie si ebbero con le due rivoluzioni settecentesche, quella americana e quella francese. Da questi due importanti eventi storici e dalle loro conseguenze – la nascita della prima grande democrazia in Occidente e il superamento del cosiddetto ancien régime – discendono i princìpi fondamentali del liberalismo: l’uguaglianza dei cittadini, la tutela della libertà individuale e del diritto alla proprietà privata, la difesa dello stato di diritto, la laicità dello stato e la tolleranza religiosa.
In ambito economico, i liberali di solito seguono la dottrina liberista, quella basata sulla libera iniziativa delle imprese, sul libero mercato, sull’abbattimento delle barriere doganali e sulla riduzione al minimo dell’intervento dello Stato. Tuttavia, il liberismo e la sua declinazione novecentesca, il neoliberismo, sono una cosa diversa dal liberalismo: le prime sono dottrine prettamente economiche, la seconda una più generale dottrina politica.
Il liberalismo è stato il pensiero politico su cui si è fondato e che ha reso possibile il sistema capitalistico, e ha perlopiù coinciso con il liberismo per quanto riguarda la sfera economica. Ma sono esistite declinazioni del liberalismo più progressiste che hanno sposato teorie economiche più favorevoli all’intervento statale e finalizzate a una maggiore giustizia sociale rispetto al neoliberismo, specialmente dagli anni Sessanta in poi. Altre declinazioni ancora del liberalismo hanno abbracciato addirittura idee protezioniste in economia.
Per circoscrivere meglio la dottrina liberale, sono necessarie altre distinzioni: il termine liberale non va confuso con il suo corrispettivo statunitense liberal, che in passato ha avuto uno slittamento semantico per cui adesso identifica genericamente la sinistra democratica e progressista americana, sebbene con un significato più incentrato sui diritti civili che sulle questioni economiche. In ogni caso, i liberal americani sono una cosa diversa dai liberali europei, da sempre collocati al centro o al centrodestra, e non a sinistra.
Un altro termine che potrebbe confondere è libertarismo, un orientamento politico che ha avuto declinazioni di sinistra, vicine all’anarchismo, e di destra, quelle che oggi sono ancora particolarmente popolari negli Stati Uniti. I libertari americani teorizzano un sistema che metta al primo posto la libertà individuale, escludendo il più possibile l’intervento dello stato centrale sull’economia e in generale sulle vite private dei cittadini. I libertari americani sono ultraliberisti, strenui difensori del diritto di possedere armi, contrari alle tasse federali, ma anche per esempio favorevoli alla liberalizzazione delle droghe leggere e ai matrimoni gay.
E in Italia?
I liberali, in particolare Camillo Benso (conte di Cavour), furono i protagonisti principali dell’unificazione italiana: in sostanza, lo stato unitario si fondò fin dall’inizio su alcuni classici princìpi liberali come il parlamentarismo, il costituzionalismo, la separazione tra stato e chiesa e il liberismo. Nei decenni successivi il regno d’Italia fu guidato sempre da esponenti liberali di vari orientamenti, fino a quando non si affermarono i nuovi partiti cosiddetti di massa – come il Partito Socialista e il Partito Comunista d’Italia – e prima che negli anni Venti il sistema politico liberale fosse definitivamente smantellato con l’ascesa del fascismo.
Nel Secondo dopoguerra i liberali confluirono nel PLI (Partito Liberale Italiano), che si ricostituì nel 1942 con il contributo di alcuni storici esponenti liberali come il filosofo Benedetto Croce e quello che sarebbe poi diventato il primo presidente della Repubblica eletto della storia, l’economista Luigi Einaudi. Il PLI per tutta la durata della cosiddetta Prima Repubblica fu il puntello moderato di moltissimi governi, a partire da quelli centristi guidati da Alcide De Gasperi fino a quelli del pentapartito guidati da Bettino Craxi. Era un partito di piccole dimensioni, che non prese mai più del 6 per cento circa alle elezioni nazionali. Negli anni Sessanta si oppose al centrosinistra, mentre negli anni Settanta si schierò per esempio a favore della legge sul divorzio.
Nel 1994 il PLI si sciolse in seguito agli scandali di Tangentopoli, e i membri del partito si dispersero in varie formazioni di centrodestra, tra cui soprattutto Forza Italia e Alleanza Nazionale. Nel 1997 il PLI fu rifondato dall’ex liberale di lungo corso Stefano De Luca – ancora oggi presidente del partito – ma nelle recenti elezioni ha ottenuto sempre scarsissimi consensi, inferiori all’1 per cento.
Il liberalismo in Italia, oggi
«Se la domanda è quali sono i partiti che si rifanno alla tradizione liberale, io direi nessuno» spiega Paolo Carusi, docente di Storia dei partiti politici all’Università di Roma Tre. «Nel senso che l’unico partito che si richiama almeno sulla carta al liberalismo è Forza Italia, ma con molte sfumature e molti distinguo». Carusi si riferisce alla storia personale di Berlusconi, che è quella di un imprenditore monopolista avvantaggiato dai suoi legami con la politica prima e dai suoi incarichi pubblici poi, in evidente contrasto con i princìpi liberali della separazione tra pubblico e privato e della libera concorrenza.
Una componente liberale, in realtà, esiste anche in un partito più marginale rispetto a Forza Italia, cioè +Europa, che è formato grossomodo da tre sottoinsiemi: i radicali di Emma Bonino, i democratici cristiani di Bruno Tabacci e appunto i liberali di Benedetto Della Vedova. Il denominatore comune di queste tre componenti è però l’europeismo, perciò non si può dire che +Europa sia un partito che si richiama esplicitamente alla tradizione liberale classica.
Secondo Carusi, quando gli esponenti politici fanno un richiamo al liberalismo non lo fanno per intendere davvero il perseguimento di politiche che vadano in quella direzione, ma piuttosto per cercare consensi nella classe media di centro: richiamarsi alla tradizione liberale, in sostanza, sarebbe un modo per «dare al partito un’etichetta che non sia chiaramente di sinistra», utilizzata non soltanto dai partiti di centro come Italia Viva e Azione, ma anche dallo stesso Partito Democratico e dal Movimento 5 Stelle.
Per fare un esempio, l’ormai ex leader del M5S Luigi Di Maio ha detto di recente in un’intervista a Repubblica che il suo partito è diventato una «forza moderata, liberale». Ma, spiega, Carusi, «definirsi liberali e contemporaneamente essere a favore del reddito di cittadinanza è una cosa che non sta in piedi».
Un modo per comprendere l’orientamento reale dei partiti è guardare al loro posizionamento nel Parlamento Europeo, dove ci sono 7 schieramenti che si richiamano alle principali tradizioni politiche: la gran parte dei partiti italiani è iscritta nei due grandi schieramenti di centrodestra e centrosinistra, cioè rispettivamente il PPE (Partito Popolare Europeo) e i socialdemocratici, o in altri gruppi minori. Gli unici che sono iscritti al gruppo parlamentare dei liberali, cioè Renew Europe, sono gli europarlamentari di Italia Viva, il partito di Matteo Renzi, il cui leader però ha una storia di militanza in associazioni politiche di area cattolica, e si richiama più spesso a quel genere di tradizione piuttosto che a quella liberale.
«In sostanza, tutte le formazioni di destra con l’eccezione di Forza Italia si guardano bene dal richiamarsi al liberalismo, e la stessa Forza Italia è iscritta al PPE», dice Carusi. «A sinistra invece usare l’aggettivo “liberale” mi pare che sia un po’ un vezzo di chi vuole cercare consensi tra gli elettori più moderati del centrosinistra, per così dire, ma in un modo più strumentale che altro».