di Massimo Ricciuti
Per avere un progetto di società occorre necessariamente ragionare su cosa sia una città e come si evolve. Spesso abbiamo avuto un concetto assolutamente deterministico, spesso ha dominato il pensiero che la “città” sia una “cosa” e che dentro questa cosa ci siano degli “abitanti”. La questione è ovviamente ben più complessa. E su cosa sia una città e quale debba essere il ruolo di chi la governi (non necessariamente il Sindaco, badate!) il dibattito è molto acceso. I recenti fatti di cronaca legati ai disastri prodotti dai sempre più frequenti eventi climatici ci impongono un’accelerazione della discussione.
Per anni ha dominato il pensiero razionalista e “invasivo” di Le Corbusier. Un razionalismo impregnato di ideologismi di origine marxista. Tale razionalismo si avvaleva di una arrogante prerogativa. Per anni la mano dell’urbanista è stata troppo pesante, per anni l’idea che alla base del vivere civile dovesse esserci un progetto disegnato da qualcuno e messo in pratica da altri ha di fatto intrecciato politica, affari e urbanisti, relegando in secondo piano, su uno sfondo secondario, i destini reali di un “corpo vivo” quale è in realtà una città. Negli States c’è stata una vera e propria battaglia culturale e politica tra “form giver” (creatori di forme)che perpetuavano le teorie neo-corbu e chi ne contestava il superamento. In pratica si trattò di uno scontro tra due “visioni”. I neo-corbu furono definiti “Bianchi”, gli avversari i “Grays” (dato che entrambe le fazioni si scontravano sull’interpretazione del vivere la modernità… il “black” non fu neanche contemplato…). I Bianchi furono attaccati per il loro settarismo ideologico e dalla doppia morale visto che la grande ispirazione fu quella di progettare edificazioni dall’aspetto “funzionalistico” e anticapitalistico ma in realtà ampiamente foraggiati da cordate imprenditoriali con l’avallo politico dello Stato. L’impronta di Le Corbusier si sarebbe infranta contro il libertarismo dei “grays” che invece preconizzavano una realtà diversa. L’emergere del “movimento” come dato di fatto fondamentale dell’”essere città”. Quindi da un lato abbiamo avuto il predominio del “fare citta” contro l’ “essere città” e dall’altro imponenti e asettiche costruzioni v/s un ritorno dell’estetica e del rispetto del territorio urbano perché fatto dall’umano.
In Europa l’addio definitivo al predominio neo-corbu è stato possibile grazie alla fine del comunismo. La mano pesantissima dell’uomo ha disegnato mostri che si sono abbattuti sulla vita delle nostre città ferendole a morte. Basti pensare all’architettura fascista e a quella sovietica e alle periferie delle nostre città. Una somiglianza incredibile. Ma al di là di ciò risalta la violenza. L’usurpazione che il “tecnico” ha effettuato sull’”Urbe” . Stravolgendo il ruolo che avrebbe dovuto avere l’ “Urbanista”. Ovvero quello di permettere all’uomo di organizzare spazi invece di riempirli! In Italia per anni le città sono state riempite fino all’inverosimile, fino all’insostenibile. L’ego del tecnico (e gli interessi economici e politici) ha segnato così forte la tela al punto di stracciarla. La mano che aveva la matita ha lasciato solchi pesantissimi. E il prezzo è sotto gli occhi di tutti.
Oggi possiamo dire che culturalmente finalmente anche in Italia ci siamo accorti che Jane Jacobs , i Grey etc sono entrati nel dibattito… ma nelle “pratiche” occorre lavorare ancora. In questi anni, una straordinaria urbanista, una scienziata del “vivere civile” (come amiamo definirla), Daniela Lepore (Docente di Progettazione urbanistica presso la Federico II di Napoli), precocemente e improvvisamente scomparsa un mese fa, usava ripetere che “purtroppo in certi settori ancora maggioritari di urbanisti di derivazione progettosa invece, tutto sommato, l’idea che poi una mano di disegnatore che tira i fili c’è e continua a esserci”. “Non ci siamo ancora arrivati-sempre parole di Daniela Lepore- a capire che ci tocca fare il minimo indispensabile affinchè La Vita avvenga!”.
Questo grande insegnamento lo dovremmo tenere sempre presente. Fare il minimo affinchè la vita avvenga. Sono i cittadini a “vivere la città”. La vita avviene lì dove c’è lo spazio affinchèavvenga! Il centro di una città è sempre una piazza mai un intrigato incrocio di piccole viuzze tra grandi edifici. Per un secolo si è pensato a costruire grandi strutture, si è pensato a imporre grandi edifici che potessero contenere in sé tutto il possibile e il servibile. Abbiamo soffocato tutto. Il “tecnico” ha avuto la pretesa di decidere come gli uomini dovessero vivere. Abbiamo messo troppo la mano sulle città. Le abbiamo lasciate senza fiato per respirare.
Nei grandi spazi si creavano i mercati e lì avveniva la vita. Fare il minimo vuol dire fare delle scelte, essere rigorosi. Questo è il solo modo per salvare le nostre città e farle ritornare a vivere. Ci vuole umiltà, coraggio e competenza. E rispetto per la vita.