Di Eva Longo*
Correva l’anno 2016 e Matteo Renzi aveva appena perso, onorevolmente, il referendum con il quale si era tentato di modificare la Costituzione abolendo tra l’altro, il Senato ed il CNEL. Seppur la consultazione renziana appariva più limitata nella prospettiva riformista e più scadente rispetto all’omologa tornata referendaria del 2006 (proposta dal centrodestra a guida Berlusconi), il risultato elettorale fu di gran lunga migliore rispetto a quello di dieci anni prima. Tuttavia il “rottamatore”, ormai abbacinato dal potere, fece un clamoroso autogol: quello di annunciare l’abbandono della politica in caso di sconfitta. Ancor più cieca fu la sottovalutazione del risultato referendario ottenuto, pur avendo contro praticamente quasi tutto l’arco dei partiti: il giovane leader riformatore si vide, infatti, assegnare oltre il 40 per cento dei consensi. Fu quello il tempo nel quale un manipolo di parlamentari propose all’allora segretario del Pd, di fondare il “Partito della Nazione” un movimento che riunisse tutti i riformisti che si erano battuti per l’affermazione del tentativo referendario. In sintesi, l’idea era quella di mettere insieme persone che avessero compreso che la crisi della seconda repubblica era una crisi di sistema non quella di uno schieramento oppure di un gruppo di persone. Ancorché aggredito dall’interno del suo partito ma anche all’esterno, Renzi manteneva l’aura di un giovane leader capace di coagulare nuove idee intorno alla primaria esigenza di riformare lo Stato nei suoi gangli vitali. Struttura e burocrazia, giustizia, fisco e sanità erano i principali temi da affrontare, gli unici in grado di garantire una svolta epocale e non il rimescolamento delle carte nel solito e stantio contesto politico ed istituzionale. Bisognava aver coraggio e visione lungimirante, ferma convinzione che se non si fossero fatte le riforme di sistema tutto si sarebbe ulteriormente deteriorato. Tuttavia Matteo non volle o non seppe cogliere il momento epocale, strappandosi le vesti e finendo per essere, egli stesso, emarginato dal partito che aveva guidato. Si accontentò di una manciata di candidati e quindi di onorevoli nel nuovo Parlamento, ove la faceva da padrone il M5S dall’alto del successo elettorale che lo aveva designato primo partito del Paese. Non venne solo meno un’opportunità per Matteo Renzi ma decadde ogni prospettiva per dare agli italiani un partito veramente riformista che potesse accorpare storie politiche diverse ma unite da una comune prospettiva. Di tutto questo avrebbero potuto beneficiare anche tutti quegli elettori moderati resi orfani dal declino berlusconiano, una parte dei quali sono poi confluiti nelle schiere della Lega prima e di FdI in seguito. Personalità di spicco, liberali e laico socialiste stanche delle solite politiche stataliste ed assistenziali, come Carlo Calenda e Roberto Occhiuto, insieme ai “ vecchi “ Gabriele Albertini, Marcello Pera, Giancarlo Giorgetti, e tanti altri giovani da individuare anche della squadra Renziana, che ben potevano figurare nel pantheon politico, avrebbero potuto prendere le redini di questa nuova formazione politica, insieme a Renzi. Insomma, aprire le porte al nuovo che emergeva dalla società corroborato dal meglio del vecchio ceto politico, accomunati dalla medesima priorità riformista. La babele di liste “fai da te”, che a Napoli ha raggiunto l’apoteosi con un complessivo del 34 per cento dei voti, di una campagna elettorale fatta da muti astanti e da assordanti silenzi, in merito ai programmi da realizzare, non si sarebbe avverata. Vedere i principali leader recarsi nei luoghi ove il risultato del loro partito è stato meno deludente, affastellando parole è stato avvilente. In estrema sintesi il risultato elettorale testimonia la debacle dei partiti di centrodestra e l’agonia dei sanculotti grillini. Non meglio sono andati i nuovi leader del centrodestra, Matteo Salvini e Giorgia Meloni che fanno da corollari al partito di Silvio Berlusconi. Dunque una balcanizzazione generalizzata di quel centrodestra che si è candidato in anticipo a vincere le prossime elezioni politiche nazionali. Non estranea a questa frammentazione è l’adozione del sistema elettorale proporzionale, un sistema che ha incoraggiato l’esaltazione delle singole identità a scapito della sintesi di un’area politica che vince solo se resta unita, in un sistema maggioritario. Se Atene piange, Sparta non ride, peggio ancora è andato il Movimento Cinque Stelle che ormai è ben al di sotto del risultato a due cifre, checché ne dica l’impomatato Giuseppe Conte. Ormai l’illusione “rivoluzionaria” anti sistema dei grillini è svanita nell’immaginario collettivo e si mantiene al Sud solo per la gratitudine dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Sorride a mezza bocca il Pd invocando la massima che sono beati i monocoli nella terra dei ciechi. Le grandi città sono andate al centrosinistra e questo incoraggia Enrico Letta che ha goduto dell’intesa con i 5 Stelle. Spariti i partiti e le coalizioni politiche con retaggio di idee e progetti, vincono l’astensione e le liste civiche. Non c’è molto di che andare fieri con le politiche alle porte.
*già senatrice della Repubblica