Se ci fosse Piero Gobetti
Tanti anni fa dissi che il fascismo non era una parentesi, come diceva Croce, ma che rappresentava l’autobiografia della nazione. Lo dissi del fascismo perché era ciò che stavamo vivendo in quel momento, ciò con cui stavamo pian piano familiarizzando.
Guardando oggi il populismo posso, in verità, dare una definizione più completa e precisa: è il populismo l’autobiografia della nazione italiana; e questo perché anche il fascismo è stato, a suo modo, una forma estrema di populismo.
D’altronde, per stabilirlo noi non dobbiamo guardare cosa la politica ha fatto per ottenere il potere e per conservarlo ma cosa i cittadini gli hanno concesso di fare.
In entrambi i casi, gli italiani hanno preferito la proposta esotica, stramba, un po’ trash, la più disgraziata, la più ambigua.
Certo, nel caso del fascismo nessuno s’è prodigato ad accordare consenso a quei quattro scappati di casa, come inizialmente c’erano sembrati. Poi hanno marciato su Roma ed il parlamento ha votato loro la fiducia, legittimandoli.
Alle elezioni del 2018, invece, milioni di italiani hanno sposato la causa del populismo, che rimane sempre l’abito cucito su misura per il nostro Bel Paese.
Perché? Si domanderà qualcuno.
Rispondo citando una brava storica contemporanea, Simona Colarizi, che dice che, in fondo, noi non siamo mai diventati cittadini, soggetti che hanno il potere politico nella propria disponibilità, tramite le elezioni, ma siamo rimasti dei sudditi per i quali questo potere – malevolo o benevolo che sia – va sempre combattuto, avversato, criticato. Qualsiasi cosa faccia e qualsiasi cosa dica.
Certo, in Francia hanno scelto un modo radicale di opporsi: le barricate, le rivolte, le rivoluzioni, la ghigliottina, il sangue.
Noi no, siamo italiani. Sono sempre troppo definitive le soluzioni francesi. A noi piace barcamenarci, aggarbare le cose, “sistemarle”.
Siamo sempre il Paese di Pirandello. E siamo anche il Paese di Ennio Flaiano che diceva che “in Italia la situazione è grave ma mai seria”.
Abbiamo deciso di opporci al potere in un unico, spietato modo: sputtanandolo.
In questi anni, come novant’anni fa, lo abbiamo concesso a chi, palesemente inadeguato, lo ha reso risibile, fonte di scherno, di battute e di ironie. Un po’ come facciamo con i carabinieri, insomma.
Il populismo è l’autobiografia di una nazione che non vuole mai fare i conti con se stessa e le sue colpe, con se stessa e le sue responsabilità, con se stessa e le sue incongruenze.
Cerchiamo delle vie di fuga, illogiche e irrazionali; ci raccontiamo della favole – quelle della grande Italia di Mussolini che, si e no, ha pareggiato qualche battaglia militare – e quella di chi vuole abolire la povertà per decreto, che vuole riappropriarsi di una sovranità che, a ben pensarci, non ci hanno rubato ma che abbiamo ceduto, di chi vuole affondare le navi su cui viaggiano poveri disperati.
È sempre colpa di qualcun altro. Anche se abbiamo delle percentuali di laureati di quindici punti più basse rispetto alla media europea, anche se i nostri figli hanno importanti carenze in lettura, matematica e inglese. Anche se le nostre donne accedono poco e male al mercato del lavoro e, purtuttavia, non fanno più figli.
Il populismo è l’autobiografia della nazione perché vogliamo, sempre e comunque, prender tempo, perché godiamo di questa instabilità che ci circonda, perché ci lamentiamo che ‘a nuttata non passa e poi non facciamo niente per farla passare.
Che vogliamo fare, siamo italiani.