Di Massimo Felice De Falco
Doveva essere un “ponte” fra la Costituzione esistente e quella futura (assieme alla riforma “Renzi-Boschi”, bocciata dagli italiani, “delineando, per la prima volta in Italia, due livelli di governo basati su un sistema di democrazia di secondo grado, ed attribuendo ad essi diversificati ruoli e finalità in un quadro coerente e armonico”, stando ad una scuola ottimista di pensiero costituzionalista. Ma così non è stato per la riforma Del Rio, che introduceva la cd. Città metropolitana al posto della Provincia, in nome di una semplificazione normativa e risparmio economico per gli italiani. Ma il sistema non è meno complesso di prima. Nella pratica concreta, le cose sono andate diversamente. Primo, tutte le norme erano pensate come transitorie, in vista di un’abolizione mai avvenuta, perché bocciata nel referendum del 2016. Secondo, riallocare le competenze che prima spettavano alle province è stato molto più complesso del previsto. Ciascuna regione ha intrapreso una propria strada nello spacchettare le funzioni delle vecchie province tra comuni, regione e enti intermedi. Asserisce l’avv. Gragnaniello: “ la riforma Del Rio avrebbe avuto senso solo laddove si fosse affermato il “si” al referendum costituzionale del 2016. Infatti, il ddl Boschi avrebbe comportato il superamento dell’ente provincia, ripartendone le (già) esigue e residue competenze fra gli atri enti amministrativi “territoriali”. Credo che all’interno di un assetto Statale marcatamente regionale e comunale, le province perdono di senso. Tuttavia esistono, ed hanno una residua funzione amministrativa; pertanto, sarebbe opportuno che i loro organi politico-amminsitrativi ritornino ad essere composti da rappresentanti direttamente eletti dai cittadini. L’assetto attuale mi pare non troppo in linea coi principi costituzionali che garantiscono la “correttezza” dell’azione amministrativa (garantita, in teoria, anche dalla più ampia democraticità degli organi)”
A circa 6 anni di distanza è legittimo chiedersi se questo abbia ridotto la complessità del sistema, o se invece non si vada verso 20 sistemi diversi di autonomie locali.
Il processo di riforma delle province è stato da subito tutt’altro che lineare.
Il solo governo Monti è intervenuto sulla materia 2 volte in 2 anni. Dapprima, nel dicembre 2011, con il decreto Salva Italia. Qui, tra le molte disposizioni per contenere la spesa pubblica, venivano anticipati alcuni contenuti della futura legge Delrio, come l’elezione indiretta e lo svuotamento delle funzioni.
“Spettano alla Provincia esclusivamente le funzioni di indirizzo e di coordinamento delle attività dei comuni (…) Il Consiglio provinciale è composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia (…)
- Dl 201/2011, art. 23
Poi, anche a seguito di ricorsi delle regioni alla Corte costituzionale, pochi mesi dopo l’esecutivo tornò sui suoi passi. Con il decreto spending review vennero riattribuite alla provincia le competenze di area vasta, con un cambio completo di strategia. I risparmi non sarebbero più arrivati dallo svuotamento, ma dall’accorpamento delle province. Creando nuovi enti intermedi di almeno 2.500 chilometri quadrati e 350mila abitanti.
-37% le province previste dal decreto spending review nelle regioni a statuto ordinario. Sarebbero passate da 86 a 54.
Il nuovo approccio non bastò ad evitare il giudizio della corte costituzionale, arrivato nel 2013. Le riforme del governo Monti vennero giudicate incostituzionali con la sentenza 220/2013. Tra i diversi rilievi mossi dalla corte, il principale era l’utilizzo della decretazione di urgenza (uno strumento per sua natura straordinario) per la riforma organica del sistema delle autonomie locali. Ovvero quanto di più stabile dovrebbe esserci in un ordinamento: la sua organizzazione interna, che ha bisogno di continuità per assicurare programmazione e servizi.
Di fronte a questa battuta d’arresto, e al cambio di legislatura, i successivi governi (Letta, e poi Renzi) hanno cambiato strategia. L’abolizione delle province è stata ancorata al percorso di riforma della costituzione. Lo stesso giorno, il 20 agosto 2013, il governo Letta depositò due disegni di legge. Uno, costituzionale per togliere la parola “province” dalla carta. L’altro (il ddl Delrio) era una riforma dichiaratamente transitoria per svuotare questi enti, in attesa dell’abolizione definitiva.
Questa riforma, nata nel 2013 come transitoria, approvata con modifiche nel 2014, è la legge che – a distanza di 6 anni – regola gli enti intermedi in Italia.
Una delle sfide più importanti era quali funzioni lasciare agli enti intermedi. E quali invece riassegnare agli altri livelli di governo: i comuni, le regioni e le neoistituite città metropolitane.
La scelta della legge Delrio è stata lasciare alle province poche funzioni fondamentali: edilizia e rete scolastica, strade provinciali, alcune competenze sull’ambiente, controllo delle discriminazioni nel mondo del lavoro. Oltre alla possibilità di fornire assistenza tecnica ai comuni, ad esempio come stazione appaltante. Alle città metropolitane sono state assegnate le stesse competenze, con maggiori poteri di programmazione nell’ambito della mobilità, della pianificazione territoriale, della strutturazione dei servizi pubblici e nello sviluppo economico.
Tutte le altre funzioni delle vecchie province dovevano essere riassegnate dalla regione ai vari enti locali. Parliamo di materie come l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti, la valorizzazione dei beni culturali, la protezione dell’ambiente, e la formazione professionale. Molte funzioni sono andate alle Regioni. Ma i sindaci reclamano l’importanza di un ente intermedio come la provincia. “Sottolineata l’importanza che per noi Sindaci, nella nostra azione quotidiana al servizio delle città che amministriamo, rivestono le province, istituzioni chiave per la coesione e il governo dei territori e attraverso cui sono garantiti servizi essenziali ai cittadini (…). Servizi che sono diritti inalienabili che non possono essere assicurati a livello comunale ma che necessitano di un ente intermedio per l’erogazione ottimale.”
- Odg dei sindaci a sostegno delle province, giugno 2019
Ma di fatto, la riforma non ha fatto altro che spodestare la figura e la dignità negoziale del consigliere metropolitano, non più eletto dal popolo, ma frutto di alchimie di voto tra i consiglieri comunali della Provincia. Dice Peppe Capone, ex consigliere metropolitano di Napoli: “L’intento del legislatore non si è realizzato totalmente nella pratica e sicuramente ci sarebbe molto da scrivere.
Con un Consiglio Metropolitano organo di secondo grado si è tolta la possibilità di far eleggere i consiglieri direttamente dai cittadini con il rischio di una mancanza di adeguata rappresentazione omogenea dei territori a favore per il voto ponderato dei consiglieri di Napoli. Inoltre la diminuzione delle competenze a favore della Regione ha creato ancora più problemi nell’attribuzione delle competenze.
Per fortuna nel caso della città metropolitana di Napoli si è riuscito a causa di un bilancio in attivo ad attuare un ottimo piano strategico a favore dei territori.
Comunque è auspicabile una riforma della legge che preveda una più corretta organizzazione di governo reinserendo una sorta di “assessori “ che possano coadiuvare con reale potere il sindaco metropolitano con un ritorno all’elezione diretta”
I consiglieri reclamano dignità istituzionale, Del Rio gliel’ha tolta. Tradita la ratio della legge, si è creato maggiore ingolfamento. Con buona pace della coerenza. Dice Enrico Pennella, storico volto della Provincia di Napoli: “Si parlava da sempre di riformare le Province. L’UPI era sensibile ed attiva sul problema. Una riforma che era diventata ormai necessaria a rendere più efficace un Ente per sua stessa natura “astratto” e poco percepito dai cittadini. Si poteva procedere facilmente applicando tagli lineari. Riducendo numero consiglieri ed assessori. Vincolando l’ambito di azione. Assegnando deleghe utili alla crescita del territorio. Intanto andrebbe anche sottolineato che mentre ci si sforzava (senza risultati concreti) di pensare ad un Ente più moderno molti politici locali proponevano per anni assurde richieste di creazione di nuove province. Quella di Nola, delle Isole ed altre amenità del genere. Poi è iniziata la grande ipocrita rincorsa al populismo Lega/5S. E via con le riduzioni di indennità già assai modeste degli amministratori locali, dei gettoni ai consiglieri etc etc. Infine Renzi. Il rottamatore supremo. Un ex Presidente di Provincia capace di una riforma che peggio, mio modesto parere, non si poteva nemmeno immaginare. Ora questo guazzabuglio informe ha creato il nulla. La città metropolitana una succursale della città capoluogo. Un bancomat istituzionale a cui attingere. Ed è evidente che questo problema in un tessuto sociale/economico sano come le grandi realtà del Nord o Roma non produce lo stesso impatto inefficiente del nostro territorio.” Dunque, una riforma, potremmo dire tafazziana.