di Felice Massimo De Falco
C’erano le Frattocchie dei “rossi”, la Camilluccia dei democristiani, c’era la scuola socialista di Mondo Operaio con le sue infinite diaspore, le stanze dell’ex segreterie di partito fumose dopo accesi dibattiti, c’erano i luoghi di formazione politico-sociale, le parrocchie, gli oratori salesiani, i digiuni di Pannella, i canti dei militanti risuonavano come rif di popstar, l’ascolto supino di chi aveva qualcosa da trasmettere, lo scontro fisico e verbale per accaparrarsi una ragione, i tazebao che facevano da strilloni, i giornali di partito, i sindacati rivendicazionisti che tutelavano davvero la classe operaia, uno sciopero generale era la scia di un disagio che allarmava i governanti. C’era un trasognante ardore nel prendere parte, ognuno a modo suo, alla vita politica del Paese. C’era furore nelle viscere dei giovani, voglia di emergere e di arrivare.
Fucine di una classe dirigente che avrebbe guidato gli anfratti del potere. C’era un fermento giovanile che guardava al futuro, a darne una direzione d’avanguardia civile. Un giovane che voleva far politica doveva passare sotto le forche caudine di una trafila lunga ma performante: iscriversi ad un partito, fare militanza, farei notare per le proprie qualità oratorie, candidarsi al consiglio comunale, poi provinciale, poi regionale e forse sarebbe approdato in Parlamento ma con uno skill importante. Poi c’erano i fuoriclasse! Quelli nati per il “mestiere della politica”. Meritoriamente.
La storia, la memoria, l’identità, l’inclinazione al ragionamento e al dialogo erano il memorandum dell’aspirante politico, ma non solo.
Generazioni baldanzose, “cazzute”, che hanno tracciato la storia dell’Italia con le battaglie. La classe che ha fatto il 68’ e il 77’, la lotta imborghesita poi contro la “noia al potere”, per dirla con Pasolini. C’era una spinta propulsiva verso l’interesse pubblico e una Prima Repubblica da smembrare dalla sua “stantìa” routine, icona di un compromesso culturale indigesto. Con gli anni si è scoperto che alcuni fenomeni come il 68’ erano devianti, frutto di una borghesia inferocita che andava contro i valori che incarnava. Un malinteso culturale che ha generato violenza e una società falsata da miti farneticanti. Ma da questo acceso calderone è uscita fuori la classe che ha dominato l’Italia.
Era il green pass di cursus honoris di rampanti giovani responsabilizzati da anni di fermentazione pubblica. Politici, giornalisti, sindacalisti, agit-prop avranno poi colonizzato i luoghi di formazione dell’opinione pubblica predominante. Giganti sulle spalle del Paese che si rispettavano tra loro pur nella diversità di vedute . C’era una smodata affezione giovanile per la cosa pubblica, partorita dalla voglia di cambiamento. E la politica ricambiava l’interesse assorbendo a sè i migliori della classe, quando ancora la politica faceva da filtro culturale tra istituzione e società.
La politica era primazia, prima che interesse culturale: avvolgeva ogni spazio della vita pubblica delle persone, era il primo fattore a forgiare nel fuoco la società, dal lavoro, la musica e i mood esistenziali di un popolo che invocava libertà. La politica investiva nella società, offrendo a tutti una leva sociale, un gradino per scalare una posizione precaria e diventare parte integrante di un corpo sociale. Bisogni e meriti camminavano di pari passo. Quest’ultimo era una mantra socialista.
Poi Tangentopoli ha innescato una graduale cesura tra giovani e politica. La corruzione, gli scandali, gli arresti, le monetine contro Craxi fuori al Raphael. Una primordiale disaffezione verso la politica fino all’escalation di Silvio Berlusconi che ha inaugurato la seconda Repubblica, spargendo il seme della speranza per tanti italiani, compresi i più giovani. Ma il sabba giovanistico dell’ex Cavaliere ha disilluso, creando un vulnus profondo tra giovani e partecipazione democratica. Gente di poco conto cooptata nelle istituzioni per ragioni poche chiare, che hanno svilito la gioventù a trascendere i gradini della politica attraverso il merito. Se ci fate caso, sono sempre meno i professionisti che disertano i luoghi della politica, perché non più ritenuta approdo di una reputazione accolta con interesse dalla gente.
In questo buco di democrazia si è infilato Beppe Grillo. L’avvento del grillismo è stato un fenomeno controverso. Se da un lato, quel visionario di Casaleggio aveva intuito che il web era la nuova frontiera per recuperare il partecipazionismo, l’avvento di un agorà democratico digitale ha dato adito alla conformazione di una “folla solitaria”, per dirla con Riesman, che non si confrontava ma recepiva messaggi spesso falsati. Uno vale uno.
I social davano la falsa impressione che tutti “potevano farcela”, ma il fenomeno ha dato adito ad una “legione di imbecilli” che opinavano su cose di cui non erano consapevoli. Di qui la crescita di una classe “dimezzata” che ha dato la stura all’incompetenza e tracciato un solco funesto nelle istituzioni, portando in Parlamento gente senza arte nè parte. Un’allegoria schizofrenica che ha dato lustro ai commedianti della politica.
Il fenomeno Casaleggio ha avuto successo ai suoi esordi: si era ricreato un confuso movimentismo di giovani, ma senza memoria storia nè identità. Tant’è che l’epilogo è stato disastroso, aprendo la strada a teorie e personaggi di dubbio valore. La mai nata Terza Repubblica si è impelagata nella disaffezione e indifferenza, incrementando i giovani che vanno a lavorare all’estero, perché qui in Italia nessuno investe in loro. Allora che fare? Indietro non si torna in politica. Oggi le segreterie di partito sono deserte, solo qualche sparuto sbarbatello che macina passione civile.
Ci vogliono le scuole di partito, i più anziani si facciano da parte e trasmettano il mestiere ai più giovani; ci vuole una muscolare riverniciata giovanilistica che passa sotto il filtro dello studio, la competenza, la passione. Non è per niente facile, ma è l’unica strada da percorrere per far rifiorire l’amor di Patria. Non possiamo rischiare di non avere più una degna classe dirigente. La fuga dei giovani dalla politica è giustificata. La politica non investe sul merito, la ricerca, l’Università, la scuola, il lavoro. Non fa più filtro tra domanda e offerta di lavoro, ma è diventata un passaporto per giovani alla ricerca di un posto al sole.
I Di Maio, i Toninelli, i Bonafede ma tanti altri sparsi in ogni schieramento sono il simbolo di una politica intesa come approdo personalistico senza competenze. Nessuna trafila dal basso, ma fortunose collocazioni. Tant’è che da quando combattevano i professionisti della politica, sono diventati essi stessi tale, pur non avendo un retroterra politico-sociale riconoscibile.
Per fortuna, abbiamo un presidente del Consiglio, che ha esautorato gente farneticante, e ha rimesso al centro la competenza. La speranza è che la politica torni ad essere arte nobile in cui un giovane può ritrovare corrispondenza alle proprie e legittime aspirazioni. Con merito. Oggi è tutto saltato: si antepongono i cartelli elettorali al bene della comunità.
Stando così le cose, potremo esclamare: beata Prima Repubblica!