Di Felice Massimo De Falco
Francesca Romana dice di sé che ha lo stesso carattere di un albero di fico, pianta tipica dell’area Mediterranea dalle origini antiche. Teme la siccità e risente molto delle avversità climatiche, in particolare delle basse temperature e della grandine che possono distruggere completamente la sua produzione.
Napoletana, classe ’84, di quelle che senza il “suo mare” non può stare.
Inizia a calcare il palcoscenico molto piccola, come allieva del Teatro San Carlo.
Da lì colleziona tanti debutti. Il primo con Luciano Cannito, proprio sulle assi del Massimo napoletano; incontra poi il M° Fabrizio Monteverde e grazie alla sua poetica approda al Balletto di Toscana; successivamente frequenta l’Opus Ballet e debutta nel musical.
Dall’incontro tra il corpo-narratore e la parola inizia la sua sperimentazione personale. Rientra a Napoli e fonda il Te.Co. – Teatro di Contrabbando con cui allestisce numerosi progetti legati alla drammaturgia contemporanea.
Su questa strada arrivano anche gli incontri significativi con Danio Manfredini, Mimmo Borrelli, Steven Zaillian, Yari Gugliucci e Davide Iodice. Proprio con questi due partecipa agli allestimenti de “Un Principe in frac” (presentato al 70° Festival di Edimburgo) e de “La Luna”, un processo performativo e di ricerca antropologica durato un anno, con cui lo stesso Iodice vince i Premi della Critica ANCT 2019.
Numerose sono le collaborazioni con realtà teatrali campane, come Il Demiurgo, Resistenza Teatro, Feir Eventi e la stessa Te.Co. – Teatro di Contrabbando. Nel 2019 debutta il suo primo progetto performativo multicanale, “Seduta s’un albero di fico. Osservatorio sul mare e sui corpi”; il 2020 ha portato anche all’organizzazione di “Termoscanner”, performance in tre fasi per la saldatura della ferita da Covid-19 e del #ProgettoRilke, pillole video di estemporanea osservazione del concetto di “tempismo”. Attualmente è al lavoro sul nuovo progetto di ricerca, “Topoghaphy of a happy city. Fotografia dell’umano più che umano” e a breve la potremo vedere accanto ad Andrew Scott e Dakota Fenning nella serie Sky “Ripley”.
Francesca si mette “a nudo” per noi
- Quali connessioni cerebrali si mettono in moto quando danzi?
Il mio rapporto con la danza è vivo, o meglio si è rivivificato nell’ultimo periodo. La danza per me è un linguaggio, un codice artistico, che va di pari passo con gli altri (la parola, il ritmo, la musica). Il grande sforzo che metto in campo quando penso alla danza è non entrare in un chliché, cerco di viverla come un flusso spontaneo di energia. Perciò, quando chiedo al mio corpo di rispondermi gli lascio molto spazio. Anche nelle mie scritture e lavori drammaturgici, molto spesso il protagonista è il gesto. La mia prima scrittura originale è quasi incomprensibile alla lettura proprio per questo motivo. In alcuni casi i miei personaggi non parlano, non hanno un nome.
- La danza é disciplina: cosa ti ha dato che metti in pratica nella quotidianità?
La danza è disciplina, sicuramente. Vengo da una scuola in cui questa affermazione era il dogma. Ricordo i primi giorni in sala al San Carlo: venivo sempre cacciata perché i capelli non erano abbastanza in ordine. Poi si impara ad adeguarsi, a rispettare questa disciplina. Ricordo anche scene molto violente e traumatiche. Ma la danza è libertà, in primo luogo. E’ la cosa più vicina all’assenza di gravità, al ritorno ad un ambiente sacro, come un ventre. Mi piace sottolineare di più questo aspetto. La disciplina tuttavia è fondamentale per chi agisce da libero professionista. Quindi, resto molto grata a quell’esperienza. Ogni giorno faccio in modo da rinnovare il mio impegno di lavoro: cerco di organizzare la mia settimana per aree (allenamento fisico, della voce, della memoria, dell’anima) e cerco di rispettare questa organizzazione.
- Con chi ti piacerebbe danzare assieme?
Amo molto il lavoro del Maestro Monteverde, mi piacerebbe tornare a lavorare con lui, anche da attrice. Allo stesso modo adoro letteralmente la poetica dei Peeping Tom.
- L’esibizione più emozionante per te qual é stata?
Ho due lavori nel cuore. Il primo è “Acqua sporca”, un corto scritto e diretto da Bruno Barone, con cui abbiamo cercato si sensibilizzare il pubblico sul tema della mancanza di riserve di acqua potabile in numerose parti del globo. E’ un lavoro che mi ha insegnato ad arrabbiarmi. Il secondo lavoro, ma solo in ordine di tempo, è “La Luna” di Davide Iodice, maestro, mentore e curatore dell’anima artistica di molti colleghi. Con lui ho imparato a non urlare, ho imparato che è bello lasciarsi guardare.
- A cosa hai rinunciato per stare “sulle punte”?
Salire sulle punte è un momento molto importante per una danzatrice. Da quel momento in poi la cura per la tua macchina artistica diventa ancora più spinta, ma è la stessa cosa che accade in tutte le arti per raggiungere il professionismo. L’arte per l’arte è puro estetismo. Non si deve rinunciare a nulla ma, proprio attingendo a ciò che Davide ripete spesso, bisogna cogliere ogni occasione per fare “gesto cavo”, cioè per accogliere la vita e riverberarla all’esterno. Sono mamma e moglie e amica e, certo, ci sono momenti in cui manco degli appuntamenti, ma anche questo è il bello del gioco.
- Ci sono luoghi comuni da sfatare sulle ballerine? Ci sono luoghi comuni da sfatare sempre. Molte cose che si dicono su di loro sono vere, ma più vera ancora è la passione che le anima e che le mette in condizione di superare molte cose. Le danzatrici sono macchine più forti di quanto non si possa credere. Penso ai danzatori ucraini che hanno salutato il pubblico francese per l’ultima replica del loro Lago dei cigni, in scena fino a pochi giorni fa, con i pugni alzati e le vene gonfie al collo. Anche gli attori lottano contro numerosi pregiudizi: si svegliano tardi, sono capricciosi, vivono da cicale. Niente di più falso!
- La pandemia ha piegato il mondo dello spettacolo. Come hai reagito?
- La pandemia è stata una grande opportunità. Ci ha regalato il tempo, la meraviglia del silenzio, la possibilità dell’ascolto e la ricchezza di un sentire comune. E’ stata una grande chiamata alle arti. Senza musica, poesia, narrativa, intrattenimento quei primi tre mesi di clausura sarebbero stati ancora più lunghi. Personalmente mi sono concessa un momento di studio e approfondimento personale. Ho dato il via ad un processo di ricerca che mi ha portato a raccogliere storie di pandemia di prima mano già dal primo giorno di apertura. Sono scesa in strada, con un numero di telefono dedicato, che la gente poteva chiamare guardandomi negli occhi per raccontarmi come stessi, come si sentisse, in totale sicurezza ma in presenza. Ho ascoltato un bambino felice di tornare sulla bicicletta dopo mesi, un ragazzo spaventato dal numero di camionette dell’esercito per strada, una ragazza felice di aver ritrovato la sua bambina interiore. E’ stata un’esperienza molto intensa.
- sei anche e sopratutto attrice. É la tua vera dimensione artistica?
Lavoro prevalentemente come attrice, ma non so dirti se sia la mia “vera” dimensione artistica. M’interrogo ogni giorno sulla mia forma. So che voglio raccontare storie e continuerò su questa strada.
- Cosa provi davanti al pubblico?
Ammiro molto i miei colleghi che sanno dialogare apertamente con il pubblico. Da persona estremamente timida, come spesso sono gli attori, il pubblico m’intimorisce. Lo rispetto. Lavoro per farlo stare bene. Eppure non nego che preferisco lavorare in macchina da presa. Lì sento di poter avere un rapporto più intimo con loro. Forse questo è il mio spazio preferito.
- A chi devi riconoscenza per averti tramandato il mestiere?
Bella domanda. In famiglia ho dei pazzi casi di artisti a cui non mi sento allineata. Ho un percorso non lineare, mi sono presa una lunga pausa in cui pensavo di volere “un lavoro normale”. Poi, un giorno, un regista mi disse “cos’è che ti fa alzare dal letto la mattina?”. Quello è stato il momento più importante della mia vita, quello in cui ho rimesso di nuovo tutto in discussione, mi sono rimboccata le maniche e ho cercato di recuperare, di costruire, rubando ovunque potessi. Sento di dovere molto a me stessa. Allo stesso modo ringrazio chi è nella mia vita tutti i giorni, con amore e pazienza. Se parliamo di mestiere, però, sarò sempre grata ad una grande professionista, Francesca Romana de Martini – attrice, coach e docente di grande spessore – e al già citato Davide Iodice, entrambi mi hanno insegnato ad avere cura e a coltivare una visione.