di Anna Adamo
Sono decine le bottiglie da un litro e mezzo piene di liquido giallastro ritrovate dentro un armadio del Palazzo di Giustizia di Piazza Verga, a Catania.
È bastato poco tempo per far si che le indagini non lasciassero spazio ai dubbi, il liquido in questione è pipì di un giudice civile che durante la fase acuta della pandemia, per evitare il rischio di promiscuità dei bagni del tribunale, ha ben pensato di sostituire questi ultimi proprio con le bottiglie, in modo da crearne uno da poter utilizzare privatamente, il cui accesso non era consentito a nessun altro.
Il tutto è stato poi scoperto in seguito all’arrivo in città dei nuovi funzionari dell’Ufficio per il Processo, momento in cui è scattata una ricerca di uffici, scrivanie e stanze in cui collocare i nuovi arrivati. La presenza dell’urina ha determinato un continuo traslocare fermatosi solo nel momento in cui l’armadio contenente quest’ultima è stato scoperto.
Quanto accaduto a Catania fa gelare il sangue nelle vene, è realtà che supera la fantasia.
Non ci si può, quindi, non chiedere come sia possibile che, chi opera in un settore così nobile come dovrebbe essere quello della giustizia, possa compiere atti tanto spregevoli, fortemente lesivi per la dignità umana e soprattutto professionale di coloro quali, invece, cercano ogni giorno di esercitare in maniera impeccabile la professione.
L’istruttoria è andata avanti con il giudice che ha ammesso di essere responsabile di quanto accaduto e ha addirittura aperto un altro armadio in cui erano conservate altre bottiglie.
Da parte del presidente del tribunale, Francesco Mannino, non ci sono state conferme e neanche smentite, ragion per cui è probabile che per il giudice sotto indagine, pur essendo difficile ipotizzarne il reato, si preannunci un provvedimento disciplinare.