di Marianna Ianniello e Luca Mazzeo
Negli ultimi giorni, tema molto caldo e dibattuto è quello riguardante aborto-sì/aborto-no.
La situazione in Europa e nel resto del mondo è molto variegata: in particolare, in Italia la legge che regola l’accesso all’aborto è la L. 22 maggio 1978, n. 194, approvata dal Parlamento dopo anni di mobilitazione da parte del Partito Radicale e del Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto, che avevano raccolto ben 700.000 firme per un referendum avente ad oggetto l’abrogazione degli articoli del Codice penale riguardanti i reati d’aborto su donna consenziente.
La sopracitata legge consente alla donna di ricorrere a tale pratica in una struttura pubblica nei primi 90 giorni di gestazione; successivamente solo a fini terapeutici.
Il ginecologo può, a sua volta, esercitare l’obiezione di coscienza, ma solo se non è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. La legge è stata confermata con una consultazione referendaria nel 1981, intervenendo successivamente una Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale ha riconosciuto il diritto della madre e del concepito a ricevere un risarcimento del danno in caso di negato diritto a “non nascere se non sani”.
A cospetto del picco massimo raggiunto nel 1983 con circa 234.000 interruzioni volontarie, oggi sono sempre meno fino ad essere i più bassi al mondo. A calare è anche il numero di ginecologi obiettori, anche se oltre il 60% persegue il diritto a non eseguire gli aborti.
Dall’altra parte del mondo, e più precisamente in America, provengono le maggiori reazioni con numerose proteste a causa della decisione della Corte Suprema che ha revocato il diritto all’aborto, in vigore da quasi cinquant’anni.
Nonostante ciò, aumenta sempre più una sorta di disobbedienza civile tra le grandi aziende che hanno deciso di pagare le spese sostenute dalle dipendenti che dovranno spostarsi per esercitare il loro diritto.
A chiudere sono anche le cliniche in cui era possibile effettuare tale pratica, tranne una: la “Jackson Women’s Health Organization” del Mississippi che resterà aperta per ulteriori dieci giorni.
In sostanza, questa è una decisione che ha diviso gli Stati Uniti tra conservatori pro-choice e liberali pro-life, rinnegando la storica sentenza del 1973 “Roe vs. Wade” che aveva legalizzato l’aborto, affermando tale diritto in base al quattordicesimo emendamento della Costituzione, garantendo protezione costituzionale fino alla ventitreesima settimana di vita del feto.
A quanto pare, il fattore scatenante che ha condotto i giudici costituzionali ad effettuare una revisione sarebbe stato l’attacco giunto dal Mississippi lo scorso anno, con la richiesta di emanare una legge che limitasse l’aborto alle quindici settimane di gestazione (rispetto alle precedenti ventitré).
Questo, da molti definito un colpo alle libertà individuali e al diritto di scelta delle donne: un ulteriore passo indietro rispetto al passato.
Ma cosa succede adesso? Negli USA la maggior parte degli aborti praticati sono farmacologici ed è sulla pillola abortiva che si potrebbe aprire una vera e propria battaglia legale, decisiva per i diritti. Una legge del Mississippi prevede l’assunzione della pillola in presenza di un sanitario, ma la FDA (Food and Drug Administration) non contempla tale obbligo.
Pertanto, per le donne che abitano negli Stati più antiabortisti permane la possibilità di procurarsi pillole abortive online.
Non resta che attendere ulteriori evoluzioni, o meglio, involuzioni da parte di un popolo che regredisce sempre più.