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22 Dicembre 2024

Chi siamo

Sui perché della guerra e sull’ incapacità europea di evitarla

di Valeria Torri

“Di guerra in guerra” è l’ultimo saggio di Edgar Morin, il grande filosofo francese, pensatore tra i più eminenti della scena contemporanea. Nella sua ultima opera, in libreria dallo scorso 14 febbraio, spiega il rischio di un nuovo conflitto mondiale se non si pone fine alla violenza in Ucraina.

Possibile, si domanda il filosofo, che non si riesca a trovare una strada differente che non preveda le tappe di un passaggio “Di Guerra in guerra”? Bisogna essere lucidi, spiega, per cogliere, dietro le apparenze, gli interessi dell’industria delle armi e di coloro che incitano allo scontro. Anche in uno scenario in cui l’aggredito (l’Ucraina) e l’aggressore (la Russia) sono evidenti, c’è bisogno di uno sforzo per andare oltre la facciata e cogliere il conflitto tra due superpotenze che manifestano la loro volontà di egemonia. Per questo Morin esprime il suo stupore per le poche voci che si levano per promuovere la pace e la sua preoccupazione per una spirale di violenza che, in nome dell’insensata logica del «fino alla fine», potrebbe trascinare l’Europa e il mondo in una Terza guerra mondiale. 

È sorprendente, secondo Morin, che in una congiuntura così pericolosa, il cui pericolo aumenta continuamente, si leghino così poche voci in favore della pace nelle nazioni più esposte, in primo luogo in quelle europee. È sconcertante vedere così poca coscienza e così poca volontà in Europa, soprattutto nell’immaginare di promuovere una politica di pace. L’urgenza è grande, dice: questa guerra provoca una crisi considerevole che aggrava e aggraverà tutte le altre enormi crisi del secolo subite dall’umanità, come la crisi ecologica, la crisi economica, la crisi delle civiltà, la crisi del pensiero. E ancora: “più la guerra si aggrava, più la pace è difficile e più urgente”. Evitiamo una guerra mondiale, ammonisce il filosofo, sarebbe peggio della precedente. 

Gli ultimi fatti, quelli del 9 febbraio appena trascorso, il giorno in cui Zelensky è stato accolto trionfalmente a Bruxelles, nella pratica, non sembrano essere stati forieri di risoluzioni diplomatiche.  Zelensky ha dichiarato: “Putin vuole distruggere il modello di vita di tutto il continente. E’ un dittatore che vuole tornare agli anni ‘30. Grazie per la disponibilità a fornirci le armi necessarie, jet compresi. Il mio paese vincerà e diventerà membro dell’Unione Europea”. Ursula Von der Leyen ha risposto: “La decisione non spetta alla UE, ma ai singoli Stati dell’Unione”.

Gli europei, in definitiva, hanno frenato sulla concessione degli aerei, esprimendo evidente timore per un’escalation della guerra. È apparso chiaro che le armi della diplomazia non riescano a sciogliere il nodo: come evitare i rischi di una terza guerra mondiale? Come fornire a Kiev i caccia evitando un’escalation militare? Come farlo senza un diretto coinvolgimento dei Paesi europei e del Patto Atlantico? 

Secondo il Ministro della difesa europeo, Wallace, i jet Typhoon britannici appartengono a quattro paesi: Regno Unito, Italia, Germania e Spagna. Ci vuole il consenso di tutti perché vengano messi a disposizione dell’Ucraina. E chiosa: “ora sono due le cose fondamentali per far prevalere l’Ucraina: un’alleanza di nazioni che forniscano tank, come i polacchi, i tedeschi, i francesi, gli olandesi e i canadesi, e dare agli ucraini gli strumenti per colpire in profondità i russi”.

Sembra, in definitiva, che i troppi esempi vicini e lontani, le innumerevoli zone del pianeta che vivono, da tempo, prolungate situazioni di conflittualità, non costituiscano un deterrente sufficientemente potente dall’ispirare le virtù delle migliori menti della diplomazia politica.

Sembra che il ricordo dei nostri nonni, difficile da dimenticare, del peso della guerra, delle conseguenze dei condizionamenti, delle paure, dei lutti, non siano capaci di illuminare la strada di chi abbiamo eletto a difenderci e ad occuparsi della nostra sicurezza.

Sembra una realtà, questa, alla quale stentiamo a credere o che osserviamo ancora da lontano, come se non ci riguardasse.

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