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23 Dicembre 2024

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Il bellicismo che, in economia, annebbia gli occhi di “tutti” i politici italiani

di Luigi Mazzella

Certamente, non a livello popolare ma sul piano delle dichiarazioni politiche, il bellicismo italiano sta diventando più accentuato e protervo rispetto a quello europeo e forse persino americano. 

Un fil rouge lega quello ostentato dai fascisti odierni a quello “virilmente” mostrato negli anni quaranta; così come lo stesso falso pacifismo di facciata unisce l’ipocrisia dei cattolici a quella dei comunisti militanti nel partito democratico.

Il bellicismo ha un effetto pervasivo, collaterale ma non meno insidioso, sotto il profilo economico.

Oltre al palese, dispendioso invio di armi a Zelensky, (iniziatore, in buona sostanza, della guerra ucraino-russa, con i genocidi e le persecuzioni di filo russi e russofoni del 2014) esso impedisce di approfondire e capire al sistema mass-mediatico (ben felice, dal suo canto, di ossservare il motto delle tre scimmiette di non vedere, non ascoltare e non parlare) perché alcuni “annunci”, che appaiono eclatanti e molto promettenti per il futuro del Paese, si sgonfino, poi, come delle “bolle di sapone” alla luce della scoperte di pretese “verità” svelate e comunicate, ex abrupto, al colto e all’inclita. 

Per esempio sono decenni che si parla di flat tax e si citano gli esempi dell’America di Reagan e della Gran Bretagna della Thatcher per farci conoscere che essa, applicata in primo luogo, ai redditi alti ha avuto (e può avere) l’effetto virtuoso di far riversare ciò che si risparmiava (e si risparmia) fiscalmente nell’attività produttiva con l’effetto di risollevare “per tutti” le condizioni dell’economia, ma poi, quando si arriva al “dunque” si dice che in Italia ciò non è possibile per ragioni insuperabili di bilancio. La montagna partorisce il topolino: si applica una “flat-tax dei poveri” (ossia sui redditi bassi) che riesce solo a far comperare un chilo di pasta in più ai meno abbienti ma non di certo a migliorare l’economia.

Da altrettanto lungo tempo si discetta della necessità di portare l’Italia centrale, meridionale e insulare a livelli più alti di sviluppo economico con sicuri vantaggi per l’intero Paese… ma poi quando si parla di costruire il ponte sullo stretto di Messina o di realizzare opere nel quadrilatero dell’Italia Centrale, Lucca-Pesaro-Pescara-Roma, insorgono misteriose e impreviste difficoltà e l’agenda politica subisce rinvii.

A pensar male, come suggeriva Andreotti, si potrebbe pensare che né le forze Alleate, vincitrici della seconda guerra mondiale e autrici del Trattato di pace (ritenuto vergognoso per i vincoli impostici da un furibondo e impetuoso Vittorio Emanuele Orlando) né la smisurata Unione Europea, utile di certo all’espansione del Mercato Occidentale ma a poco altro, vogliano che il Bel Paese cresca più di tanto. Miglioramenti sì…ma fino a un certo punto.

D’altronde il buon giorno si vede dal mattino: quando l’Italia, grazie all’operosità dei suoi abitanti, s’impose al mondo con un boom economico senza precedenti, definito “miracolo italiano” ma in realtà prodotto dalla sostanziale mancanza di un sistema fiscale (di pari effetto, in altre parole, di una “ante litteram” flat tax), i nostri legislatori (costretti dalle norme del Trattato?) tirarono fuori dal cilindro magico del pauperismo cattolico-comunista un sistema di aliquote progressive, prevedendolo già nella Costituzione, che con la “riforma Vanoni” bloccò per sempre il “boom”.

Domanda: Non è arrivato il momento che i nostri politici sia della destra al governo sia di quelli della sinistra sedicente all’opposizione si convincano che v’è un limite anche nel dimostrare servaggio e ossequio verso gli Stati Uniti d’America? Est modus in rebus, diceva Orazio.

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