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19 Dicembre 2024

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Walesa, l’ironia rende liberi

di Luigi Mazzella

“ I polacchi hanno spaccato il muso dell’orso sovietico” – afferma Lech Walesa – “sconfiggendo la bestia con l’ironia”.
C’è da credergli? A volte, però, non è così. Vi sono forme di intolleranza estrema che è difficile far crollare con il sorriso. Lo hanno dimostrato, di recente, le reazioni violente ai versi satirici (satanici) di un poeta islamico e alle vignette di un giornale parigino.
Eppure Walesa nel dire ciò che ho riportato ha un “precedente” di tutto rispetto: Giacomo Leopardi.
Gli individui che “sposano” una concezione assolutistica della vita, sia essa religiosa (come i monoteisti mediorientali: ebrei, cristiani, islamici) sia essa politica (cioè i nazi-fascisti e i social-comunisti) rinunciano non solo alla libertà di ogni loro giudizio sull’operato delle loro guide (duci, fuhrer ed è già questo un fatto grave) ma si privano soprattutto dell’uso dell’ironia e dell’humour che è, per dirla con Kundera, leggerezza dell’essere.
Basta, però, offrirgliela, come sostiene Walesa, perché il ridicolo faccia “crollare” tirannidi mostruose?
Qui soccorre Leopardi: “A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia” e duri senza annoiare “deve cadere su qualcosa di serio e d’importante”.
Un progetto organico, elaborato in maniera chiara e precisa, composto dai dialoghi satirici e prose brevi delle Operette morali, avrebbe potuto, secondo il Vate di Recanati, permettere agli uomini di ridere della loro piccolezza e del loro minuscolo pianeta, confrontati con l’immensità dell’universo o con una natura del tutto indifferente alle loro sorti.
Mi chiedo perché con Maestri come Leopardi, il fascismo di Mussolini non sia crollato miseramente prima di fare all’Italia i danni che ha fatto. Di ridicolo s’era coperto: eccome.
Tra i miei ricordi di ragazzo v’è quello di avere visto a cinema un film hollywoodiano che mi era molto piaciuto: “Uno scozzese alla Corte del Gran Khan” di Archie Mayo con un formidabile Gary Cooper che mi aveva fatto pensare a Marco Polo. Lo avevo detto a mia madre che mi aveva esternato il suo “ma”: il titolo parlava di uno “scozzese” e non di un “italiano”.
Solo grazie a internet e da adulto ho capito che il titolo originale del film americano era proprio “Le avventure di Marco Polo”. Che cosa era successo nel lontano 1938/39?
Semplicemente questo: la censura fascista dell’epoca aveva cambiato il titolo per difendere ed esaltare il valore dell’italianità che si riteneva non sufficientemente espressa dal protagonista: a giudizio di quei zelanti funzionari di Mussolini, Gary Cooper non appariva abbastanza “eroico” per essere italiano! L’effetto grottesco della sostituzione imposta per consentire la circolazione del film in Italia non spaventava i “camerati”.
Così come episodi analoghi non preoccuparono più di tanto i funzionari ministeriali di via della Ferratella che, a guerra finita, votando “biancofiore” convinti che un tale obbligo discestendesse dalla loro credenza cattolica, erano stati molto zelanti nel proteggere gli Italiani dalla visione di gambe di ballerine senza mutandoni o da attentati ideologici alla Fede.
Oggi siamo di nuovo al “ridicolo del fascismo”. I nuovi gerarchi della Meloni fermano i treni quando “gliene punge vaghezza”; pour èpater les bourgeois chiamano Atreju (rubando il nome dall’opera di Michael Ende) le goliardate di “Giovinezza” (primavera di bellezza).

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