di Anna Adamo
Laureato in Scienze Naturali e Molecolar Biology presso l’Università di Padova con 110 e lode, ricercatore e scrittore fiero ed orgoglioso dei suoi libri.
Sammy Basso era questo e anche molto di più.
Era un ragazzo che ha vissuto a pieno la vita e non ha mai smesso di trasmettere agli altri l’amore per quest’ultima.
Eppure in queste ore si sta parlando della sua morte definendolo il malato di Progenia più longevo della storia.
Come se fosse stato solo la sua malattia e tutto ciò che ha fatto, i traguardi che ha raggiunto valessero meno di zero.
La cosa non sorprende, del resto è consuetudine, a dir poco errata, fare riferimento ad una persona che vive un qualunque tipo di difficoltà solo in relazione a quest’ultima.
Una riflessione, quindi, non la si può non fare.
Perché, pur parlando continuamente di inclusione e di persone che riescono a superare i limiti imposti loro dalla vita non si riesce ancora ad entrare nell’ottica secondo cui una disabilità non definisce una persona?
Perché, si parla tanto della necessità di dover andare oltre i pregiudizi,ma quando è il momento di farlo si agisce in maniera diametralmente opposta?
Cosa non sia chiaro del fatto che la disabilità sia una parte del mondo e non un mondo a parte non si sa,una cosa, però è certa: bisogna lavorare tanto non solo per abbattere i tanti pregiudizi e tabù che permangono intorno al mondo della disabilità, ma anche per far si che l’attenzione venga rivolta verso la persona, le competenze e le potenzialità che ha nonostante la disabilità da cui è affetta, con il fine di garantire una vita dignitosa, in cui venga davvero riconosciuto il merito e non vengano dati i contentini che solitamente riservano ai disabili.
Da questo momento in poi lo dobbiamo soprattutto a Sammy, a quello in cui credeva e a quello che ci ha insegnato, affinché ogni suo gesto e ogni suo sacrificio non sia reso vano, perché lui non era solo la sua malattia.
