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23 Dicembre 2024

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Il tramonto del lavorismo – il falso mito dell’identità professionale

di Valeria Torri

Secondo Hannah Arendt, politologa, filosofa e storica tedesca naturalizzata statunitense dei primi del ‘900, autrice del noto saggio “La banalità del male”, «in un certo momento della storia moderna la considerazione del lavoro è cambiata in modo improvviso e spettacolare, diventando la suprema e più stimata tra le attività umane. Fino a quel momento, al contrario, il lavoro era stato considerato tendenzialmente un’occupazione bassa a cui riservare disprezzo».

Perciò, “per molti, il lavoro si è trasformato nel senso della vita: ha definito la loro identità e quella degli altri, condizionando l’umore e la salute mentale.” Essere (o, meglio, mostrarsi) costantemente impegnati è diventato necessario: sempre indaffarati, sempre più degli altri, una call dopo l’altra, uno straordinario dopo l’altro, un burn-out dopo l’altro.

Parole di Maura Gancitano, scrittrice, filosofa, editrice contemporanea che racconta il suo punto di vista eccentrico sul lavoro, capovolgendo luoghi comuni e retorica come ha fatto nel libro, scritto con Andrea Colamedici, “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo” (Harper Collins).

Secondo la Gancitano, Il lavoro non funziona più. O, meglio, non funziona più quella strana magia che per decenni ci ha illuso che il lavoro ci avrebbe resi felici, che avrebbe dato un senso alle nostre esistenze terrene ripagandoci degli sforzi sempre più sovrumani – e delle condizioni sempre più disumane – a cui sottoponeva moltissimi e moltissime di noi. 

Il lavorismo, la religione dell’uomo che vive per lavorare, starebbe perdendo proseliti.

Per rompere davvero l’illusione del lavoro, dice Maura Gangitano, la strada passa dalla diserzione. “Una diserzione dal lavoro, dal consumo, dalla competizione e dalla performance”. Tuttavia, l’invito non è a smettere di lavorare da un giorno all’altro, ma a tirarsi indietro, “ovunque possibile, dalle logiche lavoriste che ti spingono a credere che le cose non possano essere che così. […] A domandarti, con tutta la spietatezza e la lucidità di cui disponi ‘Ma chi me lo fa fare?’”. Cambiare sguardo e prospettiva, insomma, imparando a “pensare divergente, diagonale, di traverso” e leggere il diffuso disamoramento nei confronti del lavoro non come un problema ma, anzi, come “frammenti di una possibile soluzione”.

Come ha anche spiegato la giornalista Giovanna Botteri “la vita è una sola e non possiamo permetterci di sprecarla con il lavoro. Perché dobbiamo lavorare così tanto e fino allo stremo? Sono 50 anni che ci ripetono che ‘devi lavorare duro, fare carriera’. Ti dicono che dipendi dal lavoro che fai, dai soldi che ti guadagni e improvvisamente oggi in piazza e nelle strade si sente qualcos’altro, che c’è una vita oltre il lavoro”. 

Nell’era contemporanea, l’arrivo del covid ha segnato un punto di svolta nella concezione del lavoro. La reclusione delle persone, la battuta d’arresto soprattutto nella routine lavorativa, ha risvegliato le coscienze. In molti hanno scoperto, appunto, che “c’è vita oltre il lavoro”. 

Lo smart working, unica modalità lavorativa possibile durante i lockdown che aveva svuotato gli uffici, ha disilluso le aspettative di chi credeva che i dirigenti avrebbero scelto di proseguire nella modernizzazione che si era imposta naturalmente. Così, tanti hanno deciso che le 8 ore in un ufficio e il quotidiano e monotono viaggio casa-lavoro non erano più accettabili, dedicandosi alla ricerca di una maggiore soddisfazione di vita.

Se è vero che una riflessione sull’importanza spropositata del lavoro nel definire il valore della persona va fatta, è anche vero che per le persone innamorate della propria professione il problema della ricerca della felicità non si pone, poiché è proprio nel dedicarsi alla carriera che trovano soddisfazione e appagamento. Trattasi di una fortunata minoranza che, tuttavia, fa da padrona e detta le regole del successo al giorno d’oggi. Perciò, se il lavoro che si fa per campare non è quello che si sarebbe scelto, ci si ispira a questi pochi eletti credendo di potersi emancipare dalla frustrazione, rincorrendo un sogno – o meglio un posto – irraggiungibile perché non è alla portata oppure completamente fuori fuoco rispetto alla propria realtà.

Nel contesto del fenomeno studiato dalla filosofa Gancitano, la storia della professoressa della scuola superiore di Chioggia, Cinzia Paolina De Lio, destituita dal suo incarico per «inettitudine e incapacità didattica», notizia di poche settimane fa, assume una valenza particolare e stimola l’ulteriore riflessione su come si sia perso il senso di ciò che realmente rappresenta il lavoro per la persona ovvero l’opportunità di diventare “cittadino” e offrire il proprio contributo alla società. 

La vicenda ha sollevato lo sdegno dell’opinione pubblica che non ha sottaciuto la polemica sulla facilità con cui la professoressa si è assentata per circa 20 anni nell’arco di 24 di carriera, accedendo a permessi, congedi, ferie, malattie riconosciuti per contratto, sebbene arrecassero un danno evidente agli studenti.

Ciò che colpisce ha anche a che vedere con l’attività di “perfezionamento” alla quale la professoressa si dedicava approfittando del tempo sottratto ai suoi alunni. Si è difatti scoperto che la De Lio ha conseguito tre lauree, si è diplomata in pianoforte, si è specializzata in nuove tecnologie e autonomia scolastica con perfezionamento in criminologia, in pet therapy, in storia della medicina e in parassitologia del territorio. Si è abilitata poi come giornalista pubblicista, ragione per la quale ha risposto, intervistata per Repubblica, di voler «gestire personalmente l’aspetto mediatico della vicenda».

Alla ricerca ossessiva di prestigiosi titoli e innumerevoli qualifiche, la docente ha cercato dignità professionale ovunque tranne che al proprio posto, dove avrebbe potuto eccellere, anche a vantaggio di quella parte del servizio pubblico che le era affidato. Così facendo ha perso la possibilità di qualificarsi come persona seria e onesta, virtù che non si certificano ma che valgono più di qualsiasi titolo accademico. E di più, ha macchiato la reputazione del lavoro dell’insegnante che, a causa di persone come lei che ne hanno approfittato, non compare più tra quelle professioni che una volta erano tra le più ambite e prestigiose poiché determinanti nella crescita culturale del paese.

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