Al termine della propria ricerca pubblicata da Laterza con il titolo La diplomazia del terrore 1967-1989, la storica Valentine Lomellini scrive: “Nello sciogliere il dilemma della sicurezza (tutelare quella dei singoli cittadini o quella più complessiva dello Stato?), i governi europei scelsero la seconda, non solo rifiutando il ricorso allo strumento militare per risolvere le controversie, ma anche adottando limitate sanzioni economiche e diplomatiche ai danni degli Stati sponsor del terrorismo internazionale”.
Avvalendosi innanzitutto di documenti da poco desegretati, l’autrice intende sollevare l’attenzione sul problema della sicurezza, nazionale e internazionale, inteso quale causa principale degli eventi storici realmente succedutisi nel corso dell’ultimo secolo e della diversa lettura generalmente suffragata prima dai politici e poi dagli storici, almeno a partire dalla rivoluzione bolscevica del 1917. Lettura questa che ha accreditato l’ipotesi più comune di “Mosca al centro della rete della sovversione mondiale”.
E tuttavia siffatta teoria – generalmente assunta e condivisa almeno nell’ambito del periodo storico contrassegnato dalla cd. Guerra fredda -, a giudizio della Lomellini ignora in tutto e in parte le dinamiche storiche, e quindi reali, del fenomeno del terrorismo internazionale, come strumento per mezzo del quale si dipana il gomitolo degli eventi di oltre un secolo: dal terrorismo anarchico di fine Ottocento e inizio Novecento, al terrorismo arabo-palestinese della seconda metà del Novecento, al terrorismo islamista d’inizio dell’attuale secolo… e fino ai giorni nostri. Uno strumento basato sull’impiego della violenza “al fine di internazionalizzare la propria lotta”.
E dunque un fenomeno, quello del terrorismo internazionale, non interamente riconducibile alla dinamica dei rapporti tra i blocchi contrapposti della Nato e del Patto di Varsavia; bensì un fenomeno più complessivo inerente alle dinamiche storiche delle relazioni internazionali occorse in Europa e negli Stati Uniti tra USA, Stati europei, Stati arabi – e in particolare, si legge nel libro, Libia, Siria, Libano, Iran e Iraq -, e altri attori politici e militari intervenuti più di recente sullo scacchiere globale.
Nell’introduzione al saggio, la storica si chiede se “la risposta proposta dai Paesi europei fu efficace nel tutelare la sicurezza dei propri cittadini nel medio e lungo periodo”. Laddove, come riportato anche qui, la risposta sia stata piuttosto quella di tutelare la sicurezza più complessiva dello Stato rispetto a quella dei singoli cittadini. Risposta che sarebbe mutata “solo dopo le ondate terroristiche jihadiste degli anni Duemila, (allorquando) i Paesi dell’Unione Europea avrebbero finalmente deciso di volgere nella direzione di una politica realmente partecipata”.
Ma, se così stanno davvero le cose, alle tante domande risolte o irrisolte, sarebbe forse il caso di aggiungerne un’altra: cosa significa dire che, nel passato ed evidentemente prima del battesimo definitivo dell’Unione Europea, la scelta sia stata quella di tutelare la sicurezza più complessiva dello Stato a danno di quella dei singoli cittadini? E, con l’Unione Europea, dire che questa scelta sia mutata? Una risposta che, naturalmente, avrebbe un’importanza fondamentale per il presente e il futuro che verrà.