Di Carlo Roselli*
Usando quest’espressione, ringrazio Guido De Ruggiero, filosofo di fama, per averla coniata e per avermela prestata. È così, lo credo profondamente.
Lo credevo già nel 1929, quando sull’isola di Lipari – dove il regime m’aveva confinato – avevo scritto Socialismo liberale, per il quale ancora oggi vengo ricordato.
Era tuttavia, e paradossalmente, più semplice allora sostenere quest’idea: il liberalismo – diritti inviolabili dell’uomo, stato di diritto, proprietà privata – godeva di ampia legittimazione intellettuale e speculativa, per quanto il periodo fosse macchiato dalla dittatura fascista, e anche il socialismo studiato non stava male (quello politico un po’ peggio).
È vero, popolari e socialisti, miopi nelle loro rispettive posizioni, avevano scelto di non compromettersi vicendevolmente, lasciando spazio a Mussolini ma almeno astrattamente rappresentavano quel nucleo duro dal quale, con assoluta certezza, si sarebbe ripartitonon appena la parabola totalitaria fosse stata archiviata.
Come infatti è stato.
È più difficile sostenerlo ora, dicevo, quanto sia importante sottolineare la funzione liberale del socialismo. Diamo qualche dato, così da capirci meglio: la globalizzazione, ad esempio, ha avuto tra i suoi meriti più evidenti quello di abbattere nel mondo la povertà assoluta. Ci sono Paese in via di sviluppo – penso al Vietnam, giusto per dirne uno – che prima della pandemia crescevano del 7-8%, cifre che noi europei sogniamo.
La globalizzazione è stata anche “compressione spazio-temporale”; ha, essenzialmente, accorciato le distanze, permesso meticciati culturali, aperto le menti, influenzato e incuriosito. Ha incrementato i livelli di import e di export, migliorando il commercio.
Tutto bene, quindi? No, perché ha anche accresciuto le diseguaglianze economiche all’interno degli stessi Paesi, provocando quel fenomeno che è stato definito di indianizzazione.
La globalizzazione ha determinato una nuova frattura politica: i vincitori – quelli che, della globalizzazione, hanno beneficiato perché già orientati verso un tenore di vita alto – ed i vinti – che hanno visto il mondo ingrandirsi ed espandersi e loro rimanere piccoli e insignificanti.
Ecco perché dobbiamo riscoprire, oggi più che mai, la funzione “liberale” del socialismo, soprattutto del socialismo culturale.
Parlo di socialismo culturale come di quello orientato a capire i problemi della povera gente, ad ascoltare gli ultimi, a dare legittimazione alle proprie paure, ai propri timori. Il socialismo che “condanna il crimine e le sue cause” e cioè povertà, miserie, ignoranza, come sosteneva Tony Blair, il socialismo che pone al centro meriti e bisogni, come pure ormai quarant’anni fa teorizzava Claudio Martelli.
Un socialismo che non abbia la pretesa di avere in mano una ricetta economica vincente ma che stia zitto, ascolti e provveda ad aiutare, a migliorare vite.
Un socialismo che non prescriva ma che guidi, che non imponga ma che curi. Che non nazionalizzi, per capirci, ma che tenga alto il tema del lavoro e della sua dignità, che si preoccupi per tutti i lavoratori attraverso ricette pragmatiche e realizzabili, non con dogmi superati dai tempi.
Io, per sostenere ciò, ho perso la vita.
Voi, con molto meno, potrete fare un gran servigio per l’umanità.