di Marco Follini*
“Stanno tornando gli anni 70? A leggere le cronache degli ultimi giorni viene da chiederselo. La piazza ribolle di sentimenti ostili e qualche volta violenti. La politica è bloccata, in bilico tra accordi che non riesce a stipulare e alternative che non sa bene come organizzare. E solo la speranza di attingere a qualche risorsa in più (ieri la spesa pubblica, oggi il Pnrr) lascia intravedere una via d’uscita. Naturalmente non è affatto detto che la storia si ripeta. Né che la tragedia di ieri debba diventare la farsa di oggi (Marx dixit). Ma chi ha vissuto il buio di quegli anni lontani ricorda che esso non s’è prodotto da un giorno all’altro, e che quando si è cominciato a vedere era forse troppo tardi per provvedere. Naturalmente, per ora, sono assonanze impercettibili. Anni 70 in miniatura, per così dire. La protesta può irrompere in forme incivili e squadristiche, come è accaduto domenica scorsa contro la Cgil. Ma non c’è quel retroterra ampio, denso e profondo che all’epoca portò un pezzo della destra a seminare bombe e un corposo frammento della sinistra a generare il terrorismo. E il clima delle piazze, delle scuole, delle fabbriche non sembra certo quello di allora. Tutto questo, s’intende, non attenua né la gravità delle violenze, né il senso di pericolo che ne discende. Semmai accentua l’urgenza di evitare che le cose possano spingersi oltre. Quanto alla politica, essa non ha più sulle spalle il fardello delle ideologie contrapposte, e dunque potrebbe più facilmente muoversi e mettere mano a quelle mitiche riforme di sistema che ha messo in agenda da anni e anni. Potrebbe, appunto. Se solo volesse. Ma non sembra volere, e dunque finisce per non potere. Ma è proprio qui, in questo punto, che si annoda la crisi. In quei lontani anni 70 i partiti cercarono di smantellare almeno una parte dei muri che li dividevano. Democristiani e comunisti si avvicinarono un pochino, avendo imparato che la troppa lontananza dell’immediato dopoguerra avrebbe finito per logorarli entrambi. I socialisti giocarono la loro partita corsara senza mai smentire i presupposti della governabilità. E i missini, lontani da tutto questo, ebbero cura di cercare una misura che rendesse la loro estraneità meno lacerante. Tutti i leader di quella stagione sapevano bene di dover temperare certe loro spigolosità, e soprattutto di doversi dedicare a una severa opera pedagogica verso i loro militanti più intemperanti. Tutto questo non ci portò in regalo la tanto mitizzata ‘democrazia compiuta’ che si vagheggiava allora. Ma almeno ne evitò la degenerazione. E consentì infine di suturare alcune delle fratture che quella stagione aveva prodotto. Ora la cosa curiosa è che i protagonisti di oggi pur essendo assai più liberi dei loro progenitori finiscono per farsi imprigionare dalla mitologia dei loro conflitti. E non comprendono che in questi frangenti servirebbe loro più un gesto generoso verso i loro avversari che una posa gladiatoria verso i loro elettori. Così la Meloni fatica a dire una parola -antifascismo- che la libererebbe dai sospetti che la avvolgono. La Lega, un giorno al governo e il giorno dopo all’opposizione, fa un continuo girotondo su se stessa. Conte fa finta che il populismo si possa utilizzare e rimuovere a giorni alterni, secondo umori, furbizie e convenienze. E dalla parti del Pd risuona la parola d’ordine dell’arco costituzionale (copyright De Mita, fine anni 70) come se il tempo fosse passato invano. Difetti assai diversi, ovviamente, per significato e gravità. Ma con un punto in comune. E cioè l’idea che la trincea delle vecchie identità dovrebbe propiziare formidabili avanzate elettorali. Mentre invece proprio quell’idea lascia tutti fermi al palo, scontenti di sé senza mai far contenti i propri seguaci. A cinquant’anni da allora, o quasi, la società è forse meno inquieta e ribollente. Ma la politica svolge con molta più fatica un compito che pure dovrebbe essere assai meno difficile”.
*fonte Adnkronos